LA TIGRE di Stefano Laboragine - labo'

I polsini della camicia erano lisi dal roteare nervoso e isterico delle mani. Lui l'arte non la insegnava a parole, la descriveva con la mimica esilarante di chi dell'arte ne fa gioco e impegno di vita. Era di origini napoletane e nonostante la sua ridotta statura, le compagne di scuola lo trovavano affascinante. Con le falangi pelose delle mani ci placava le irruenze degli undici anni, ferendo l'aria che nascondeva la plasticità delle opere di Michelangelo o la perfezione del Canova. E noi giovani dalla pelle liscia e con gli occhi attenti per le scoperte dell'età, lo guardavamo senza domande, gioiosi di quel metodo speciale di insegnarci una materia che credevamo inutile. Era facile immaginare ciò che le sue braccia volevano materializzarci in quell'aula. Seguiva la linea retta della luce che dalle vetrate del secondo piano ci riscaldava i Fabriano 4 sparsi sui banchi, e ci trasmetteva la genialità di Picasso e la disperazione di Munch, la magia di Caravaggio e la ricerca di Piero della Francesca, fin'anche l'irrequietezza di Giotto che non riusciva a intrappolare lo spazio dei sui occhi negli affreschi. Mi sorrideva il professore di educazione artistica e raramente mi dava consigli. Ricordo che una volta volle tenersi per se un bassorilievo che avevo realizzato copiandolo da un manifesto del circo Embel Riva, affisso proprio di fianco al cancello della scuola; era una tigre. Gli piacque così tanto da chiedermi di lasciarglielo, perché sarebbe servito a riempire le pareti azzurre della palestra per il Natale.
Con ansia attesi la fine dell'anno per vedere un mio lavoro partecipare per la prima volta a una collettiva. Ma il Natale del 1984 non portò nessuna tigre. Ci rimasi male e con la delusione volli immaginare che quell'opera si trovava a coprire un po' di spazio vuoto tra le pareti del soggiorno dell'insegnante. Un giorno di nove anni fa, lo incontrai. Era lo stesso che ricordavo in piedi sulla pedana avanti la scrivania a fare ombra con le mani sulla lavagna. Ci salutammo con un largo sorriso prima di dirci buongiorno. Con gli occhi corsi subito ai polsi. Quel giorno indossava una camicia a maniche corte e capii subito che aveva smesso di insegnare l'arte con le braccia.
Ci scambiammo le giuste informazioni che in dieci anni potevano tracciare un breve profilo della nostra vita, quel giusto per renderci conto che entrambi avevamo un'altra età. Provai qualcosa di molto simile alla gioia, quando tra le tante domande che un ex insegnante avrebbe potuto rivolgermi, volle sapere se la mia passione per la pittura era in qualche modo rimasta. Fui orgoglioso di rassicurarlo che quelle lezioni, che viste dall'esterno erano più simili all'educazione fisica che a quella artistica, avevano lasciato la giusta traccia. Con l'aria del reduce, fiero mi soppesò sulla spalla una delle due braccia che per anni, avevano insegnato a tante generazioni l'arte come in un film del cinema muto, e mi sorrise.
“Ma lo sai che di te conservo ancora un bassorilievo?”. Provai gioia vera. A distanza di anni, quella tigre scappata da un Natale in palestra, si trovava davvero là, dove per anni avevo voluto immaginarla, tra le mani ormai stanche del mio professore. Avrei voluto ritoccarla per riassaporare quelle ore in cui l'arte, iniziò a invischiarsi nei miei giorni. Ci salutammo.
Non l'ho più visto. Chissà se gioca a muovere l'arte con i nipotini, e chissà se la mia tigre ha mantenuto la stessa aggressività che, con sforzo plastico, ero riuscito a dargli ventidue anni fa... Ovunque tu sia professore, ti auguro di poter toccare tutta l'aria che desideri, come facevi con noi, perché hai saputo insegnarmi tutta la magia di una scienza così bella, che non sempre con le parole si riesce a spiegare. Ciao professò
Stefano Laboragine

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