“Se questo è un uomo” Primo Levi - di Stefano Laboragine


di Stefano Laboragine
Quando Christian Vasciarelli (Contemporary Art Gallery C.30 Bologna) mi ha presentato il progetto “LETTURA FRESCA”, cioè la rilettura artistica del contenuto di un libro significativo per l’artista, utilizzando come supporto interpretativo il libro stesso, ho consumato alcune ore davanti i ripiani della libreria, nell’attesa che un volume tra i tanti suscitasse “l’ispirazione” giusta per il progetto. Sono stato combattuto tra tre titoli, ma uno di loro aveva tra la copertina e la prima pagina, una sporgenza, un lembo di carta che non ricordavo. Lo tiro fuori e sopra c’era disegnato un carro di legno pieno di corpi privi di vita, trainato da un uomo. Lo avevo fatto nel 1996. Mi sono detto, questo è il libro: SE QUESTO E’ UN UOMO di Primo Levi.
Ogni volta che ho davanti la tensione scritta sul volto di Primo Levi, per chissà quale acrobazia emotiva o esercizio della suggestione, immagino una porta, la “porta”: quella che chiudeva i capanni dei campi di concentramento. E mi assorda un crudele frastuono di ferro e cuoio. Il ferro disumano della tortura, il ferro suonante delle chiavi degli aguzzini nel rinchiudere i deportati nei loculi dei dormitori o nei forni crematori. Il cuoio nero e lucido degli stivali dei gerarchi: ne vedo la loro follia riflessa sulle punte, i loro occhi accecati dalla forza prepotente della sopraffazione. Ma la porta è la metafora della storia, della nostra storia di uomini. La letteratura, la musica, la pittura, l’arte in generale nella sua sublime intimità, deve - e può – mantenere viva la memoria, deve lasciare aperta la “porta” della testimonianza. L’ Arte senza l’impegno, senza la forza del coinvolgimento, è futile, vana, è solo inutile manierismo estetico.
La lettura di Levi è sempre, irrimediabilmente, drammatica; lascia le piaghe nella parola, nell’immaginazione e ti domandi: “E’ questo un uomo? E’ questa la storia che precede il nostro presente? Dove era l’Uomo nel suo individualismo perverso, quando ha permesso la tragedia delle tragedie?
Siamo certi che questa storia è la pagina più sporca che l’uomo abbia potuto scrivere? Eppure sono ancora tante le barbarie contemporanee, sottaciute, finanziate. Penso alla terra di Palestina, al popolo afgano, a quello tibetano, agli irakeni, agli africani, e mi convinco sempre più che la porta non va chiusa.

La scelta del supporto cartaceo, non è casuale. Ho scelto un’agenda che mi è stata regalata due anni fa da una amica ebrea. Me la regalò perché potessi segnarci sopra i giorni a venire, ma soprattutto perché disegnassi i volti immaginati dei suoi familiari (11) morti a Birkenau. Da anni con l’arte mi sforzo di interpretare la shoah, avverto la necessità di non dimenticare, di non far dimenticare, ma soprattutto di pensare che chiunque osservi i miei lavori dedicati allo sterminio degli ebrei, risvegli la coscienza e tremi di fronte a tanta disperazione. Quando si affronta l’Olocausto è difficile - se lo si fa con gli strumenti della rappresentazione pittorica - non cadere in una certa oleografia, tante volte riproposta attraverso la documentazione fotografica. D'altronde, come si fa a trasmettere o a immaginare lo sterminio degli ebrei, se non si ricorre al filo spinato, alle recinzioni elettrificate, agli zoccoli di legno, alle divise a bande bianche e blu, ai camini dei forni crematori, alla eleganza rigorosa delle divise delle SS e ai vagoni merci piombati diretti verso i campi di concentramento?
Allora il compromesso è: riproporlo nelle modalità artistiche più emotivamente comunicative, il più vicino possibile alla sensibilità dei fruitori, di chi conosce la storia o la rievoca attraverso le immagini del disegno, dei colori. Un modo altro per ricordare.
http://informa.comune.bologna.it/iperbole/cultura/eventi/52271/id/27267

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