Quando Mahmoud Hamamda è arrivato
alla Casa della Pace, prima che la sua mano di saggio pastore palestinese si
congiungesse alle altre, in un saluto che
sapeva di gratitudine, mi si sono presentati i suoi occhi, incastonati a metà
tra la lunga barba e il suo agal. Gli
occhi di Mahmoud hanno una luce che raccontano da soli la speranza e la voglia
di non arrendersi a chi, da anni, ha stabilito arbitrariamente la schiavitù e
l’azzeramento dei diritti di un popolo, quello palestinese. Per tutta la sera
ho cercato di trovare, in quel colore a me estraneo, il buio dell’odio, della
rabbia. Mi sono arreso di fronte alla consapevolezza che nel suo sguardo, questi
sentimenti non hanno mai trovato accoglienza. Quando il sole rassicurante della
primavera è andato lentamente a posarsi alle spalle della collina di San Luca,
Mahmoud si è allontanato per ringraziare Dio, e lo ha fatto nel perimetro
bianco di un posto auto che forse, in quel momento, sotto le sue ginocchia, si
è trasformato in un tappeto dei colori della sua Terra. Poi conosco Sawsan, una
delle figlie di Mahmoud. Gli occhi non hanno la stessa tonalità, ma la luce è
identica, e non si tratta di ereditarietà biologica, si tratta della stessa
parola che entrambi sanno pronunciare nella loro lingua con dignità: “speranza”. Iniziano a raccontare la loro storia di
abitanti del villaggio Mufaqqarah, a sud delle colline di Hebron, villaggio
che, per decisione delle autorità israeliane, verrà evacuato per far posto a un
campo di addestramento delle milizie israeliane. Mahmoud ci racconta che in
realtà l’evacuazione servirà a fare spazio a nuove colonie di ebrei, e ci
descrive l’azione quotidiana della loro resistenza pacifica, di come hanno
deciso di combattere, senza armi, l’occupazione e i soprusi continui del potere
israeliano. Poi prende la parola Sawsan. Rompe subito il suo imbarazzo, quando
avverte nello sguardo dei presenti la tenerezza e la solidarietà per il suo
essere donna prima ancora che palestinese. I suoi racconti liberano tra i
partecipanti, l’emozione iniziata con i discorsi del padre. Questa giovane
donna descrive la sua vita di 22 anni, con un decoro, con una forza, che non
hanno il tono della rassegnazione ma il suono della volontà di non arrendersi.
Ci racconta dei suoi studi e dei 12 chilometri che percorre a piedi
quotidianamente, da quando aveva sei anni, per andare a scuola e solo dopo aver
aiutato la mamma nella mungitura delle pecore. Ci racconta del suo arresto e
dei ripetuti interrogatori a cui è stata sottoposta, perché attivista nel
movimento di resistenza non violenta del suo villaggio. Parla dei sacrifici
della sua famiglia per pagare il suo rilascio su cauzione che le vieta la
possibilità di partecipare ad ogni attività “politica”. Poi si rivolge a Awni,
il traduttore, prima di stendere una
mano nella direzione di Luisa Morgantini. Quella mano è una carezza di
riconoscenza verso una donna che da anni lotta e combatte al loro fianco,
affinché il conflitto israelo-palestinese possa concludersi nella pace di un
trattato che sappia riconoscere equamente i diritti e il territorio sottratto
alla nazione palestinese. Luisa le accarezza una spalla, e quel tocco materno,
solo quel gesto, serve a disegnare e a raccontare a tutti noi, l’amore di
questa straordinaria donna per il popolo palestinese. La serata e l’incontro si
concludono quando sul tetto della Casa della Pace, la luna ci segnala che è
finito un altro giorno. Tornato a casa ho difficoltà a trovare il sonno,
risuonano forti le note dei racconti della famiglia Hamamda, li ripeto a me
stesso per paura di dimenticarli, e comprendo - a tarda ora - il senso profondo della parola “libertà”.
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